Tradizioni popolari – Leggende popolari mesagnesi

La Signura Leta

di
Marcello Ignone

Secondo un’antica leggenda mesagnese, diffusa in molte altre località del Salento anche se con nomi diversi, la Signura Leta sarebbe un fantasma di donna che dimorerebbe in antichi e decrepiti fabbricati di campagna. Un tempo, in verità non molto lontano perché lu cuntu era ancora raccontato negli anni Sessanta, si riteneva che abitasse la masseria Mucchio ma anche altre vecchie case di campagna andavano bene e la nostra Signura Leta era avvistata o aveva la residenza in molti posti, funzionando sia da spauracchio in campagna per “visitatori” inopportuni, sia per incutere paura a bambini un po’ troppo vispi.     Dove e come nasce questa leggenda ? Chi era questa Signura Leta ? Come ci è stato tramandato il cuntu e perché?

Il cuntu non ci interessa solamente per gli aspetti demologici e contenutistici, ma anche per quelli formali, tenendo presente che ci è stato tramandato oralmente per molto tempo e solo da poco codificato per iscritto. Il termine Leta non è mesagnese e non appartiene al nostro dialetto; Leta è sicuramente accostabile al termine dialettale salentino, in particolare leccese, Ledu, che vuol dire laido, sporco, brutto e a sua volta derivato dall’antico termine francese laid, che vuol dire laido, sudicio e usato, per estensione, per indicare qualcosa che suscitava ribrezzo . Scarsa cavalleria dei nostri avi o più semplicemente paura di una defunta inquieta? La leggenda è presto detta.

Un tempo, non sappiamo quando ma non tarderemo a scoprirlo, una giovane donna di Mesagne (l’origine è chiaramente diversa di paese in paese) era innamorata di un bel giovane del posto, che ricambiava. Il loro amore, come spesso accadeva (e in onore delle leggi che regolano la narrazione), era però contrastato dai fratelli della donna che ostinatamente si opponevano al matrimonio dei due giovani innamorati. Non ci è dato sapere se i due giovani avessero dei genitori e se in particolare li avesse la donna; si intuisce che la giovane dovesse essere sotto la tutela dei fratelli più grandi. I due giovani pensarono di porre gli ostinati fratelli di fronte al fatto compiuto attuando una fuga d’amore e rifugiandosi in una casa di campagna.

I fratelli non sopportarono l’offesa e le inevitabili dicerie dei paesani e decisero di scovare i due giovani per dar loro una solenne punizione e lavare così l’offesa arrecata al nome dalla sorella. Cercarono in molte case di campagna e alla fine i terribili fratelli scoprirono il rifugio dei due giovani amanti e vi si recarono con intenzioni omicide. I due giovani, forse avvertiti o accortisi dell’arrivo dei fratelli di lei ed intuite le reali intenzioni, tentarono di nascondersi. Qui la leggenda popolare mesagnese tralascia di raccontare del giovane. In alcune varianti di paesi limitrofi il giovane amante fu subito ucciso dai malvagi fratelli di lei, mentre con coraggio tentava di difendere la sua donna; in altre, invece, il giovane fa la stessa fine dell’amante. La povera donna, comunque, spaventata e sorpresa di tanta malvagità cercò di trovare rifugio nel forno adiacente all’abitazione, per evitare che i fratelli la uccidessero. Nella fretta però la giovane donna perse una scarpa che non riuscì a raccogliere per l’arrivo improvviso dei fratelli. La vicinanza della calzatura al forno fece capire ai fratelli dove si era nascosta la donna.

Pensarono allora di appiccare il fuoco alle fascine, a lli sarcini, che copiose ostruivano il forno e dietro le quali la donna aveva trovato rifugio. Forse i fratelli volevano indurre la sfortunata sorella ad uscire o forse avevano realmente intenzione di punirla in modo atroce. Fatto fu che la giovane morì arsa viva, gridando tutta la sua disperazione e maledicendo i suoi empi fratelli. Il suo fantasma, vestito, com’è logico aspettarsi in questi casi, di bianco (in alcuni varianti con l’abito da sposa) e con una sola scarpa sarebbe apparso a molti, specialmente durante alcune “particolari “ notti e in fabbricati abbandonati di campagna. Secondo quanto raccontato dai malcapitati spettatori, il fantasma era solito mostrarsi affacciato ad una finestra mentre il suo bianco spettrale illuminava la notte. La Signura Leta si manifestava sempre per terrorizzare e da ciò, forse, l’appellativo chiarito precedentemente.

Alcuni scrittori locali hanno in vario modo congetturato su questa leggenda con esiti incerti, come nel caso dello Scoditti che in un suo dattiloscritto, La Masseria Mucchio e la leggenda della Signura Leta in Mesagne, del dicembre 1957, fatto circolare anonimo, dopo aver dissertato sulle origini della masseria Mucchio, da lui fatta risalire agli anni 1830-35, parla della leggenda della Signura Leta, dal momento che la leggenda popolare mesagnese indicava proprio questa masseria come dimora abituale del fantasma. Lo Scoditti congettura che “tale credenza derivi dagli Dei Lari dell’antica religione pagana, i quali abitavano le case, le campagne, i crocicchi, le strade, ecc.”. Accosta il nome Leta, traendone l’etimo dal Vocabolario dei dialetti salentini, Monaco 1956, alla bruttezza e alla paura e quindi la Signura Leta “non può non essere una signora brutta, cioè cattiva”.

La bruttezza è quindi, per lo Scoditti, sinonimo di cattiveria e non lo sfiora nemmeno che la spiegazione più semplice è in realtà la più veritiera: la Signura Leta era un fantasma e del resto nella leggenda popolare e non solo mesagnese, si parla del colore “bianco” che è da tempo immemorabile simbolo di morte. Nel congetturare poi la nascita di tale leggenda, fa dipendere il cunto dall’esistenza dei fabbricati della masseria Mucchio collocandola dopo gli anni 1830-35 e prima delle nascite del… padre e delle sorelle, avvenute tra il 1849 e il 1858. Insomma la leggenda, a parere dello Scoditti, sarebbe nata e si sarebbe diffusa tra il 1830 e il 1858. Successivamente si pone dei dubbi: come può una leggenda diffondersi in così breve spazio di tempo? Lo spazio geografico non lo preoccupa minimamente e quindi colloca tale leggenda “nel 17° secolo o nel 18° secolo”, ma solo perché altri fabbricati erano in precedenza esistiti e poi crollati in quel podere.

L’importanza dei fabbricati, sui quali c’è una lunga disquisizione, è tale per il nostro cultore locale che addirittura tale leggenda si è propagata e, diciamo così, ha preso piede a Mesagne, proprio per l’esistenza di tali fabbricati, anche se precedentemente aveva affermato che i mesagnesi erano soliti far dimorare la povera Signura Leta in “fabbricati vecchi e disabitati di campagna”, uno dei quali è collocato dallo stesso Scoditti in contrada Fisica. Ma la ciliegina è come al solito alla fine: lo Scoditti non si sente di escludere che tale leggenda “possa essere stata creata appositamente da qualcuno. Una volta infatti tanti anni fà (l’accento è dello Scoditti ), ho sentito raccontare che un tale di condizioni elevati (!) teneva al Mucchio una sua amante; e che per tenere lontana da essa quanta gente più possibile (!) o perché geloso o per evitare che la donna fosse identificata, avrebbe creata (!) e messo in giro la leggenda”.

La leggenda della Signura Leta sarebbe quindi nata come spauracchio per coprire avventure adulterine. E nel resto del Salento? E le varianti, alcune delle quali proposte dallo stesso Scoditti? In realtà questa leggenda ha una origine “colta” e la nostra Mesagne c’entra poco o nulla, come spesso accade a molte “nostre” tradizioni popolari. Essa è un esempio non raro di letteratura colta divenuto poi patrimonio dell’intero popolo nei secoli successivi alla sua origine, che spesso ha chiara paternità. Talvolta più archetipi se non addirittura, come nel caso della Signura Leta, fatti di cronaca realmente accaduti nel Medioevo o in evo moderno, possono aver dato origine al cunto. Più plausibile è però far risalire la leggenda a racconti o novelle medievali. Ad esempio alcuni punti di contatto si possono notare con alcune novelle del Decamerone del Boccaccio. Molte le analogie con la novella quinta della giornata quarta e con la novella sesta della giornata quinta.

È acclamato che alcune novelle del Boccaccio rimarcano l’esemplarità di certe figure, anche femminili, e che nell’opera è presente anche “una dimensione occulta e funebre, allucinata e quasi diabolica”, inoltre le novelle “fanno riferimento a personaggi e situazioni notissimi ai lettori del tempo” (Ferroni). Nella prima novella citata il Boccaccio racconta di Isabetta e del suo grande amore per un giovane, anche costui morto ammazzato dai fratelli della donna. Il giovane appare in sogno ad Isabetta e le indica dove è sepolto. Lei lo dissotterra, ne prende la testa e la pone in un vaso ricoprendola poi di terra nella quale fa crescere del basilico. Sul vaso Isabetta piange per molto tempo. I fratelli però scoprono tutto e sottraggono il vaso alla povera donna che ne muore. La vicenda narrata dal Boccaccio in questa novella, che per inciso è una delle poche in cui il grande novelliere fiorentino appare commosso, a tal punto da usare parole gentili e dolorose, segno di partecipazione profonda alla vicenda, potrebbe realmente essere accaduta tanto che il Boccaccio condanna senza mezzi termini i terribili fratelli di Isotta e dichiara apertamente tutto il suo orrore di fronte allo spietato gesto.

Primo elemento comune con la Signura Leta è la spietata crudeltà dei fratelli della giovane innamorata. Questi spietati moralisti hanno a cuore solo meschine preoccupazioni sociali: si preoccupano soltanto dell’infamia provocata dalla sorella, pensano che è obbligatorio vendicarsi per lavare dal viso la vergogna e perciò non esitano ad uccidere sia il giovane amante e, nel Boccaccio indirettamente, anche la giovane sorella, senza rispetto né dei suoi sentimenti né della sua felicità. Un altro elemento comune è l’amore della giovane per il suo amante e in difesa di questo amore e contro un bigottismo colpevole il Boccaccio grida tutto il suo sdegno. Nel Decamerone la ragazza è giovane, indifesa di fronte alla prepotenza dei fratelli e dell’intera società. Fragile ed indifesa è anche la nostra Signura che perde la scarpina come una novella Cenerentola ma, a differenza della protagonista della fiaba di Perrault, il suo ritrovamento sarà causa di morte.

Il trasporto di chi ascolta lu cuntu o legge la novella del Boccaccio è intenso e altrettanto forte è la partecipazione al dramma delle due sfortunate donne. I malvagi fratelli la fanno franca e l’amore è tragicamente perdente di fronte all’ignorante e colpevole perbenismo sociale. Finisce bene, invece, nell’altra novella boccaccesca, nella quale si narra di un certo Gian di Procida che deve essere arso vivo legato ad un palo per colpa di un tragico equivoco. Riconosciuto alla fine da Ruggeri dell’Oria, riesce a scamparla e sposa la donna che lo ha salvato dal rogo. Qui l’elemento comune è rappresentato dalla pena del rogo, quella stessa punizione che la povera Leta è costretta a subire per mano dei fratelli e sempre per amore. La novella boccaccesca è a lieto fine, lu cuntu è invece tragico, e tragico è anche il prosieguo della storia dal momento che la povera Signura Leta è condannata, forse per la maledizione lanciata ai fratelli, a restare sulla terra e ad abitare campagne e costruzioni isolate sotto forma di fantasma che terrorizza la gente.

Il terrore non è solamente nell’essenza ultraterrena della Signura ma risiede nel fatto che la disperazione per l’amore mancato e il   crudele distacco dall’amato e dalla felicità sono troppo grandi e forte è la condanna della meschinità e della ipocrisia della gente. Tutto questo è rappresentato dal fatto che il fantasma è muto e mostruoso nelle sue apparizioni e la sua angosciante presenza nella memoria collettiva testimonia della perpetua condanna di una donna alla quale è stata recisa tragicamente una vita felice. La gente aveva un tempo terrore dello spirito muto e mostruoso della Signura Leta perché ne temeva la vendetta. La collettività trasformava la sua ansia, vera e concreta, in cunti e non si creda che tali credenze erano frutto di barbariche e medievali superstizioni, perché in realtà di queste credenze, di spiriti dei morti che tornano, di fantasmi presenti nel mondo dei vivi in determinati momenti dell’anno e in precise occasioni è pieno l’attuale “mondo tecnologico” e soprattutto nelle città la gente crede ancora con intensità mai venuta meno. Come classificare allora film “noir” come Il corvo, favole come Ghost   o le mille leggende metropolitane?

Le superstizioni sono insopprimibili perché sono delle valvole di sfogo, dei meccanismi di difesa di singoli e di gruppi per giustificare ed esorcizzare le paure, i fallimenti, le incertezze e tacitare, talvolta, le voci di dentro.

La “Papara”: antico torneamento carnevalesco

di
Marcello Ignone

Uno dei momenti più importanti del periodo più folle, trasgressivo e violento dell’anno, era l’uccisione di Carnevale. Un rito esorcistico per mezzo del quale la comunità si liberava del male compiuto nell’anno appena trascorso e dava fondo agli istinti e ai desideri più nascosti. Era così pronta, grazie ad un rito purificatorio e propiziatorio, ad affrontare il nuovo anno o la stagione nuova. Di questo momento di sfogo e di rinnovamento collettivo, per mezzo di una specie di terapia collettiva, moltissimi oggi hanno perso il vero significato e del carnevale è rimasto solo un divertimento vuoto, strumento di un esagerato e deleterio consumismo. Il calendario liturgico inserisce il carnevale tra l’Epifania e le Ceneri, primo giorno di Quaresima. Il calendario folclorico lo fa iniziare il 17 gennaio. Il termine del carnevale con le Ceneri è introdotto dal cristianesimo. A partire da questo giorno il cristiano non poteva più mangiare carne sino a Pasqua. Poiché il carnevale anticipa le Ceneri, tutti gli studiosi concordano nell’attribuirgli il significato della morte.

Il carnevale discende storicamente dagli antichi Saturnali, le licenziose feste in onore di Dioniso. Antichi riti agrari di purificazione e di propiziazione legati alle feste di passaggio dall’inverno alla primavera. Un periodo in cui la natura è immobile, la semina è da tempo avvenuta ma il raccolto è ancora lontano e, quindi, il problema del cibo quotidiano è fortemente sentito. L’inverno, però, ha raggiunto il suo acme ed è questo il momento della rinascita della natura. Non è un caso che per secoli l’inizio del carnevale abbia coinciso con le feste di inizio anno. Questi riti, propri di un mondo primitivo, rappresentavano il bisogno della collettività di purificarsi, espellendo il male del vecchio anno, e di propiziarsi il nuovo. Il carnevale, infatti, si compone di riti eliminatori e propiziatori e con la festa di capodanno ha in comune tre aspetti: il cibo, il sesso e la morte. Nel medioevo alcuni carnevali furono estremamente trasgressivi e l’orgia, sia sessuale che alimentare, era sovente il punto culminante e non c’erano convenzioni o luoghi che potessero frenare i partecipanti e molto spesso si dovette ricorrere a severi divieti, fatti rispettare con la forza delle armi e del carcere.

Il terzo aspetto, cioè il rapporto tra il carnevale e la morte, può, a prima vista, lasciare perplessi; in realtà il rapporto è molto più stretto di quanto si possa supporre e non devono ingannarci né gli scherzi né l’apparente gioiosità del periodo. I nostri antenati erano soliti offrire ai defunti ed agli spiriti dei trapassati, doni, primizie, animali e, un tempo remoto, anche esseri umani, che avevano lo scopo di scongiurare, con elaborati riti, un loro ritorno o un loro intervento malefico sulle cose ed il raccolto, come pure sugli uomini durante il nuovo ciclo annuale. La paura dell’ignoto e della fame era così esorcizzata con riti più o meno cruenti. Il terrore e l’angoscia sono evidenti nel carnevale nei suoi aspetti macabri, nel colore bianco spettrale dei vestiti e dei visi dipinti, come pure nel colore nero delle maschere indossate. C’è un rapporto molto stretto tra maschera e morte, cioè tra i vivi e i defunti, gli spiriti, necessariamente maligni dal momento che quelli buoni non facevano paura al punto che la collettività li aveva da tempo eletti, in forme diverse, numi tutelari delle cose e degli uomini, mentre gli spiriti maligni erano fuori, esterni alla collettività e perciò soprintendevano, secondo le credenze primitive di carattere magico, alla vegetazione. Nel tardo latino, forse mutuato dal popolo germanico dei Longobardi, il termine che designava la maschera era masca, cioè strega, che per i longobardi era uno spirito maligno divoratore di uomini.

Il carnevale, allora, è un periodo di lotta tra i vivi e i morti, cioè tra la primavera e l’inverno o, se volete, il giovane e il vecchio. In pratica il principio di un nuovo ciclo annuale che si spera, e ci si illude, sia migliore di quello appena trascorso. Un tempo carnevale era personificato e dopo un processo, una condanna, la lettura, talvolta, di un testamento, arrivava puntuale la condanna a morte, con gli immancabili funerali ed abbondanti pianti tra lazzi e risate, con contorno di maschere, musica e balli. Il povero Carnevale era ucciso in diversi modi: squartato, bruciato, impiccato, fucilato. Ma oltre ad essere rappresentato da persona in carne ed ossa, ci fu un momento in cui, forse per evitare tragedie, lo si volle rappresentare o da un fantoccio o da un animale. La scelta cadde soprattutto su galli, tacchini, maiali ed asini.

Nel 1889 il Pitrè così descriveva, in “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”, il “giuoco dell’oca o della papara”: «Dal noto uccello dell’oca prende questo giuoco carnevalesco la sua denominazione, avvengachè, alla sola oca solea rendersi la testa dai giocatori nel principio della sua primiera introduzione. Non è egli in verità tal giuoco dei nostri tempi che quello stato un dì dell’anello, solito festeggiarsi dai nostri antichi… Nella lizza, nel cui centro stava l’anello, non solo vi son pendenti presentemente le oche, ma anche altri volatili qualunque vogliansi, come a dire di anitre, galline, colombi e con essi insieme animali quatrupeti, come di vitelle, capretti, porci ed altri. Gli attori che han luogo in questo spettacolo sono tutti cavalieri, cioè persone andanti a cavallo, figuranti vari caratteri, che tutti fanno una ambulante scena e comparsa teatrale. Chi la fa da militare, chi da bandito; chi da cittadino, chi da dottore, chi da pulcinella, chi da bandito; chi da barigello, e finalmente accendendosi da mascherata di carattere chi di Morte armata d’arco, chi da Furia infernale, colle fiamme in esso riccamando l’abito. In questa forma godendosi prima la lor cavalcata per le più cospicue strade della città e sotto il rimbombo per lo più di festini di bari (sic) di quei che han fucili. Finalmente giungono al punto ove hassi da giocare. Or qui, alla lizza tutti correndo, fanno strage di quei miseri innocenti animali sull’atto esposti alla lor barbarie: e chi ne fa la testa sente fare il colpo della dama, cioè del punto d’onore, con cui a sé traggesi la gloria del più bravo corritore.

Estinto che viene l’ultimo animale, termina il giuoco e le carni degli scannati animali si portano correndo dai giuocatori alle osterie, ove con quelle che vi cucinano e coi vini che vi tracannano si danno il tempo di darsi ubbriachezza, e saperla quanto mai possa, e così professare più vivamente le leggi del carnevale che sta regnando nel punto della lor festa».

C’è una forte analogia con un torneamento simile che avveniva sino a pochi anni fa in Piemonte e descritto da Agostino Birolo nel 1930 (cfr. G. B. Bronzini, Origini ritualistiche delle forme drammatiche popolari, Bari 1974). Il Birolo descriveva la «tradizionale festa del pitù» o tacchino di un paese del Monferrato, dove alcuni giovani ingrassavano ben bene l’animale e l’ultima domenica di Carnevale gli facevano la festa… ammazzandolo. Dopo una solenne processione che aveva come protagonista il tacchino, il povero animale era legato con testa penzoloni al palo appositamente eretto e, al segnale convenuto, ad uno ad uno i cavalieri galoppando si portavano nei pressi del palo e qui menavano «un gran colpo di bastone sul collo del povero animale». ritornando a menare colpi su colpi fino a quando la testa del pitù non si fosse staccata «sprizzando sangue all’intorno».

In un documento depositato presso l’Archivio di Stato di Brindisi (Fondo notarile di Mesagne – Atto notar Samuele Marino, cc. 25, inv. 4854, del 16 febbraio 1786) si legge:

«Declaratio facta per nonnullos Cives Messapiae.

Die decima sexta mensis februarj quartae indictionis millesimi septigentesimi octuagesimi seti.

In Terre Messapiae Nos Vitus Cajetanus Lozupone Rutiglianentis rino de dicta Messapiae Pubblicus ac Regia autoritate Notarius, Testes Angelus Carmelj Fischetti, Joseph Santoro et Antonius Maria Grande, omnes de dicta Messapiae.

In pubblico testimonio avanti di noi costituiti li magnifici Vincenzo Di Dio, Cosimo Campi, Emanuele Braccio, Rocco dello Diaco, Benedetto Ritiglietta, Saverio Grande di Giovanni, Angelo Vito Muscaggiuri, ed Giovanni Rampino cittadini tutti di Mesagne, li quali presenti spontaneamente, non per forza han dichiarato, fatto fede, ed attestato, siccome con giuramento in presenza nostra fanno fede, dichiarano, ed attestano, qualmente il giorno dodici corrente febbraio, ed anno millesettecentottantasei, in occasione, che avanti la chiesa di S.Anna nuova, sita nell’abitato di Mesagne si fece la Corsa di tagliarsi la testa di un animale negro, e altri animali, che vivi legati ad una fune si tenevano pendoloni in aria per i piedi di dietro, detta volgarmente la Papara, si portarono essi attestanti a vedere la corsa sudetta, e viddero fra i Corritori a Cavallo, che vi era anche Nicola Calia di loro conoscenza, e paesano, che cogli altri compagni Corritori, correva la sudetta Papara».

Quindi a Mesagne è attestato un torneamento cavalleresco, chiamato “volgarmente la Papara”, del tutto simile a quello siciliano e piemontese. E questo stesso torneamento è attestato anche più vicino a noi nel tempo e nello spazio. Infatti in un opuscolo pubblicato dai ragazzi della classe terza, sez. B, della scuola media statale “Giovanni XXIII” di Torchiarolo (Torchiarolo: alla ricerca del passato), a pag. 9 è riportata un’intervista ad una persona anziana del paese che ricorda che «l’urtimu giurnu, lu martitia, te li carniali se facia la papareddhra… Se stindia ‘nu filu de fierru te ‘na parte a l’autra te la strata e a mienzu, a ‘na certa altezza, se ppindia ‘na papara ia. Poi ‘ncuminciava la gara e a quista putianu partecipare quiddhri ca sapianu scire a cavaddhru. Li cavalieri rriandu te corsa annanzi a la papara sianu ‘mpizzare su lu cavaddhru e cu la ronca tagghiare la capu. Ciunca tagghiava la capu te la papara incia la papara».

È chiaramente la stessa festa carnevalesca in tutti i casi descritti, lo stesso torneamento: ci sono gli animali, la papara ma anche altri animali, i cavalieri, i colpi per tagliare la testa all’animale, la piazza, la folla, e, talvolta, al torneamento seguiva un testamento con intenti comici. La precisazione del colore dell’animale, nel caso di Mesagne (negro), riporta al carattere infernale e diabolico che si intendeva attribuire alla povera bestia. In Sicilia erano usata la spada, in Piemonte il bastone, a Torchiarolo la ronca. Nel caso di Mesagne lo strumento non è citato, ma sicuramente doveva essere un’arma da taglio (spada, roncola) in quanto il documento parla di taglio della testa dell’animale. Dagli animali vivi (papara ia di Torchiarolo) si è poi passati ad animali morti, precedentemente uccisi per evitare inutili sofferenze. Gli animali erano poi consumati in banchetto dalla comitiva a cui apparteneva il giovane cavaliere che aveva vibrato il colpo della vittoria, aveva cioè ammazzato l’animale con un taglio secco della testa o l’aveva staccata con un colpo di bastone. È chiaro l’intento eliminatorio e propiziatorio di questo violento torneamento carnevalesco, appartenente anche alla nostra storia locale.

Il periodo carnevalesco e il gioco della pentolaccia a Mesagne

di
Marcello Ignone

Tutti i giochi collettivi, anche quello cosiddetto della pentolaccia, hanno la loro funzione di essere in un momento di sfogo, esercitato dal gruppo in maniera corale. Ammetto di non conoscere con piena sicurezza le origini del gioco della pentolaccia, ma credo siano antiche pur se, almeno in apparenza, l’usanza del gioco si è conservata intatta sino ad oggi, anche se con pochissime varianti regionali. Con ogni probabilità, almeno nella forma conosciuta a Mesagne, ha origini toscane perché è in questa regione che ha la sua maggiore diffusione, in particolare nelle campagne e durante il periodo carnevalesco; ed è, infatti, al Carnevale che il gioco si riallaccia.

Il gioco della pentolaccia è, in poche parole, una gara alla quale possono partecipare sia ragazzi che adulti. La pentolaccia è un recipiente di terraglia, giunto inalterato sino a noi dalla notte dei tempi e conosciuto a Mesagne con il nome di pignata, anche se all’occorrenza potevano essere usati altri recipienti di terraglia assomiglianti in tutto o in parte alle antiche olle. Qualunque fosse il recipiente, era, comunque, fatto di terraglia, di coccio, ed era riempito di dolci o altre leccornie, ma anche di acqua, coriandoli, farina, ecc. Poteva essere riempita una sola pentolaccia o anche più di una, ed in tal caso le pentole erano riempite in vario modo. Le pentolacce così riempite erano poi legate ad una fune e sospese da terra ad un’altezza sufficiente perché i partecipanti, muniti di bastone e bendati in modo da non vederle, potessero colpirle quando era il loro turno. Quando una delle pentole era colpita, il contenuto cadeva per terra e molto spesso addosso al giocatore, con grande gioia dei bambini se la pentola conteneva leccornie, ma con grande disappunto del concorrente se, invece, la pentola era stata riempita con sostanze come acqua o farina. Il gioco è tutto qui, semplice nel meccanismo e nell’esecuzione. Evidentemente il suo vero significato risiede altrove e per poterlo meglio comprendere occorre inquadrarlo nel più vasto contesto del periodo carnevalesco e quaresimale.

La Quaremma mesagnese è detta in Toscana Vecchia, ma è sempre un fantoccio con le fattezze di una vecchia. Un tempo il popolo appendeva Quaremma ad una fune tesa in mezzo ad una via pubblica. Il fantoccio era poi bastonato dai ragazzi sino alla completa lacerazione dei vecchi e logori abiti. Talvolta era riempito di fichi secchi e questi, una volta lacerati i vestiti, cadevano per terra, da dove erano raccolti. Il fantoccio di Quaremma è stato appeso di traverso ad una via, sospeso in aria e tenuto da una corda tesa tra due case, sino a pochi anni fa ed io stesso ne ho visto uno pochi addietro a Latiano, sospeso tra due case di una delle ultime strade che perpendicolarmente si immettono a destra sulla via provinciale per Torre S. Susanna.

Carnevale deriva, secondo il Bronzini, da “carnem levare”, cioè abolire, vietare, non mangiare la carne. Un tempo questa tradizione richiedeva un rituale abbastanza complesso che comprendeva anche l’usanza di gettare nel fuoco, la sera del martedì grasso, gli utensili da cucina ed in particolare quelli utilizzati proprio per la cottura della carne. Il gioco della pentolaccia si riallaccia, con ogni probabilità, a questa usanza dal momento che la pignata era un tempo la signora delle pentole, se non proprio la pentola per eccellenza della nostra cucina. Si poneva vicino al fuoco e serviva per cuocere di tutto, dalle fave alle braciole e al bollito di carne.

Va osservato che le tradizioni si basano su credenze ed usi molto antichi e nella maggior parte di esse confluiscono concezioni magiche e religiose. Se non ci sono dubbi sulle seconde, occorre dire che sono presenti ancora oggi anche le prime, di fatto molto importanti, più di quanto si creda o si è disposti ad ammettere. Un tempo la vita umana era in rapporto molto stretto con il lento e monotono fluire del tempo e le leggi e i fenomeni naturali erano interpretati ed esorcizzati perché o semplicemente non erano comprensibili, oppure, al contrario, si viveva in stretto contatto con la natura e, quindi, in maggiore armonia. Queste interpretazioni si sono logicamente modificate con il trascorrere dei secoli, dal momento che la civiltà si è evoluta e culture, opinioni,   interpretazioni e mode differenti hanno preso il posto di antiche consuetudini, di vecchie culture, mai , però, morte del tutto.

Il tempo era regolato dalle stagioni e dai raccolti e, quindi, si dovrebbe, a rigore, parlare di cicli come momenti del ritorno delle stagioni. Mi riferisco sia al ciclo della vita (nascita, morte, lavoro, matrimonio) che al ciclo dell’anno, diviso, a sua volta in un ciclo delle festività (Carnevale, Quaresima, Pasqua, Maggio, San Giovanni, Ferragosto, Autunno, Calende, Natale) e in un ciclo calendariale (Calendario liturgico, festività ecclesiali, sagre religiose, feste patronali, pellegrinaggi). Il cattolicesimo ha modificato molti usi e altri ne ha introdotti, magari innestandoli sui precedenti, per così dire, più restii a scomparire ma, a ben vedere le tradizioni legate ai cicli stagionali non sono affatto scomparse, piuttosto si sono modificate, quanto e come è poi da vedere, come nel caso della festa più importante dell’anno, cioè il suo inizio, che ha subìto variazioni nel tempo e nello spazio. Carnevale ha, da sempre, rappresentato l’inizio dell’anno e, se riflettiamo un attimo, possiamo notare come il Natale, il Capodanno, l’Epifania e il Carnevale, altro non sono che antichissime feste agrarie che chiudevano, e chiudono ancora, un ciclo annuale e ne aprono un altro. Solo successivamente queste feste sono state, per così dire, adattate ed utilizzate da differenti culture, sino ad assumere i significati, religiosi e laici, di oggi.

Origini e significati diversi ma ancora abbastanza chiari: eliminare, dimenticare, allontanare il male e i peccati, in definitiva i guai e i problemi di un anno appena trascorso mentre, contemporaneamente, si cerca di propiziarsi l’anno nuovo che si spera abbondante, prospero, fertile, pieno di beni, materiali e spirituali. Per la magia il simile produce il simile e, quindi, l’anno vecchio che se ne va e quello nuovo che arriva, innesca le feste d’inizio anno. Via il male, i guai, i peccati, le malattie, il vecchio; avanti, invece, la salute, le primizie, la gioia, l’abbondanza, la purezza, l’energia giovanile. Non si doveva affrontare il nuovo anno, e non lo si deve ancora oggi, pieni di acciacchi, tristi, con pensieri malvagi, perché una mal disposizione non produrrebbe beni, non sarebbe insomma positiva e, soprattutto, feconda. Il Carnevale è, soprattutto, una festa orgiastica, sia di natura sessuale che alimentare e sotto questo aspetto prosegue l’orgia alimentare e sessuale delle feste dell’anno appena trascorso e del nuovo, che si spera migliore. Da qui le offerte di primizie (uva, melograni, meloni) sul cui significato ci sarebbe non poco da dire. L’orgia è poi sessuale non solo per l’evidente clima liberatorio (e libertino) che da sempre ha accompagnato il Carnevale, ma per il chiaro significato di fecondità intrinseco già nella natura che rinasce ed oggi ancora più evidente nell’uso, talvolta sfrenato e purtroppo sempre consumistico, di biancheria intima di colore rosso.

A ben vedere, però, il Carnevale contiene dell’altro. C’è in esso un forte odore di morte, c’è il mitico (e nella cultura occidentale mai veramente tramontato) ritorno dei morti, quasi che gli spiriti avessero una porta aperta per la nostra dimensione in questo periodo dell’anno. Oggi il Carnevale non è più quello di un tempo in quanto una volta serviva come “valvola di sfogo”, ed era l’unica, mentre oggi lo sfogo e le fughe sono quasi quotidiane e c’è semmai il problema contrario. Un tempo c’era un grande terrore ma anche un forte rispetto per i morti che ritornano. Ecco allora le maschere che coprono il viso, non solo per avere una maggiore libertà d’azione; ecco il colore nero, gli scheletri. Tutto serve ad esorcizzare, ieri come oggi, la paura della morte. Con la differenza però che un tempo la morte era il naturale compimento della vita, una porta sull’aldilà, mentre oggi è qualcosa che deve essere rimosso ad ogni costo, allontanato, quasi appartenesse agli altri e mai a noi. Il Carnevale è, quindi, un sogno, dove tutto è trasgressione, ribellione al potere, scherzo e, soprattutto, violenza liberatoria, ponte tra sesso e morte, liberazione degli istinti e dei desideri più profondi, da mascherare accuratamente. È insomma una sorta di terapia collettiva che consente alla comunità di sfogarsi, di rinnovarsi, di passare dall’inverno alla primavera ed iniziare, così, un nuovo ciclo vitale.

Il Carnevale è una delle feste più importanti perché è per tutti, senza distinzione di età e di livello sociale, autenticamente popolare. Anche la Chiesa ha da sempre nutrito un atteggiamento di tolleranza e talvolta di partecipazione verso le manifestazioni carnevalesche che ha sempre visto come motivo di svago e di spensieratezza ma anche come momento essenziale di riflessione e di riconciliazione con il divino. Da qui le astinenze e i digiuni che iniziano dalle Ceneri. A mio avviso va anche detto che il Carnevale si ripete apparentemente uguale a se stesso anche se, a ben vedere, conserva ogni volta i caratteri dell’innovazione e dell’improvvisazione. I giorni di festa di un tempo sono divenuti le vacanze d’inverno di oggi, concesse durante il Carnevale e da riferirsi, forse, alle famose licenze di libertà che anticamente si concedevano agli schiavi durante i saturnali, in onore del dio Saturno, mitico dio pagano dalle idee molto aperte in fatto di uguaglianza e fraternità. Occorre dire, per amore di verità, che Carnevale è, alla fin fine, sempre diverso, anzi è bello e divertente proprio per questa sua particolarità che è tipica dell’innovazione e dell’improvvisazione.

Questi “caratteri”, propri di ogni Carnevale, sono sempre esistiti anche nei nostri carnevali, anzi a ben vedere è proprio Carnevale che vuole il rovesciamento dei ruoli ed è per questo che accade, ad esempio, che donne vestano abiti maschili ed uomini indossino quelli femminili. Oggi le cose stanno diversamente e donne in abiti maschili non sono certo una novità (e viceversa) del solo periodo carnevalesco. Ci sono, inoltre, considerazioni ancora più “serie” da fare sul nostro Carnevale, non diversamente dagli altri del Salento e della Puglia. A ben vedere nel Carnevale si cela una forte ambivalenza: l’aspetto comico si confonde con quello tragico e ci sono, contemporaneamente, sia la vita che la morte. Carnevale a Mesagne muore di indigestione. Non c’era processo o almeno non ne sono a conoscenza e tanto meno testamento che, entrambi o uno solo, apparivano in altre località della Puglia. C’è però il funerale o meglio c’era, perché oggi è solo una caricatura. Il significato è chiaro anche in presenza di due soli rituali (l’abbuffata ed il funerale): Carnevale muore ed elimina il peccato ed il male, simboleggiati proprio dall’abbuffata e dal cibo, il quale sembra costituire un ostacolo al rinnovamento e alla rinascita di un nuovo ciclo.

Non è un caso che Carnevale venga portato in processione attraverso le vie cittadine, in quanto non c’è mai rappresentazione statica, in piazza o su di un palco. L’intenzione è quella di coinvolgere il maggior numero possibile di persone, perché tutte possano partecipare al rinnovamento e nel contempo riflettere sull’estrema fugacità sia della vita che dei piaceri terreni. Ecco allora la presenza della morte a cui un tempo si attribuiva un valore positivo, perché il funerale e la morte di Carnevale contenevano una forte idea di rigenerazione tipica degli antichi riti agrari, quando si seppelliva e si seminava, si moriva e si rinasceva, in un eterno ciclo di vita e morte. Sulle maschere c’è da dire che tanto più sono grottesche, deformi e “comiche” quanto più sono lontane dalla realtà ed irreali. La maschera rappresenta la morte e questo è ancora più evidente nell’etimologia del termine che deriva dal longobardo e sta per spirito maligno (masca è infatti l’equivalente di strega). Un tempo molti si vestivano, naturalmente chi poteva permetterselo, con un lungo saio nero o, in tempi più recenti, con un elegante domino e così mascherati giravano di sera bussando alle porte di parenti ed amici, chiedendo con voce minacciosa e cavernosa vino e qualcosa da mangiare. In gruppi li mašchiri si presentavano al padrone di casa, ma solo uno doveva farsi riconoscere e normalmente era colui che non portava la maschera. Questo era necessario per evitare problemi talvolta anche seri, non infrequenti dati i tempi, la miseria e l’ignoranza. Tutto il gruppo restava rigorosamente anonimo.

Oggi si rappresentano molto spesso personaggi reali e noti e più che maschere sono caricature non senza satira politica. Sta di fatto che il significato vero del Carnevale è oggi scomparso ed è comunque molto diverso da quello di un tempo. Oggi la morte fa paura e si tende ad allontanarla dalla nostra esistenza: è “realtà virtuale”, “qualcosa” da vedere in televisione o in uno di quei film di Hollywood dove ci sono centinaia di morti ammazzati, e mai “qualcosa” che appartiene al singolo, alla sua esperienza di vita e, in definitiva, all’intera collettività umana. Certo, c’è ancora la voglia di esorcizzarla, ma la morte non è più parte del ciclo vitale, e l’uomo moderno ha definitivamente perso l’illusione della rinascita. Ecco allora che la morte deve essere allontanata dalla nostra esperienza e le maschere si fanno apposta colorate e gioiose, perché tutto deve essere festa e solo festa, per dimenticare, illusoriamente, che in realtà esiste, tradendo, così, il vero spirito del Carnevale.

I giochi collettivi ed individuali

di
Marcello Ignone

 

Elenco di alcuni giochi praticati un tempo a Mesagne

1. Sottàcanzippu
2. Cavallu t’oru
3. Salva fratelli
4. Tiri-toti (titiritoti o a ci nn’acchia)
5. A zzeppuri
6. Ammè-salami (a štacchia)
7. Battimurra (a battimurri)
8. A sotta pareti (a štapareti)
9. A capu e croci
10. A buttuni (a pinnini o a ramiroddi)
11. A lli quattru pizzuli
12. A gatto, topo, re battente
13. A ci rriva primu
14. A curlu
15. A spacca chianchi (o a carassa)

16. A mosca cieca
17. A truddi
18. A tuppa fierru
19. A lla salonga
20. A llu šcaffu
21. A llu tuzzu a llu tuzzu
22. A lla matonna ti li quaranta
23. A lla mamma ti li fiuri (oppure ti li culuri)
24. A uàrdia e latri
25. A curescia
26. A rota (o a cerchiu)
27. A lla naca
28. A frecci
29. A lla corda
30. A cì và nterra

31. Pizzaca e nnò ritiri
32. A monopattunu (oppure a motopattini)
33. A ronda
34. Lu fucili a molla (a ccappetti)
35. La freccia
36. La fionda
37. Lu telefunu
38. La ciamara
39. Lu tira e molla (lu jo jo)
40. A secuta surgi
41. All’umbrellu
42. A pallini
43. A curešcia (lu fazzulettu)

Spiegazione di alcuni dei giochi elencati

Sottacanzippu
Il gioco era praticato da due o tre ragazzi, talvolta anche più. Nel caso di tre giocatori, due si piegavano ad una certa distanza, con la schiena rivolta all’in su e le gambe diritte, mentre il terzo li saltava uno per volta, poggiando le mani sulla loro schiena. Ultimata la corsa e superati i due ostacoli, si piegava a sua volta ed attendeva che il primo compagno saltato da ostacolo, diventato saltatore, si accingesse a saltarlo a sua volta e dunque, esauriti gli ostacoli, si disponeva egli stesso ad essere saltato.

Cavvallu t’oru
Due squadre formate da un numero variabile di ragazzi, almeno quattro per squadra ma potevano essere anche sei, tiravano a sorte e la perdente si “metteva sotto”, nel senso che ogni componente della squadra si piegava sulla schiena in fila, attaccandosi l’un l’altro all’altezza del bacino. Il primo della serie si appoggiava ad un muro o palo. Si formava così un superficie fatta di schiene sulle quali dovevano saltare i ragazzi della seconda squdra, più fortunati nel sorteggio. Questi ragazzi dovevano saltare tutti e mantenersi in equilibrio senza cadere, perché questo comportava la penalità di “mettersi sotto” e sostenere , a loro volta, i compagni della prima squadra. Ma se questi di sotto non reggevano il peso dei compagni e cadevano, perdevano e si rimettevano sotto. Chi saltava non solo doveva farlo per bene per mantenere l’equilibrio, ma il primo che saltava doveva cercare di farlo il più avanti possibile per lasciare il posto ai compagni della squadra che saltavano successivamente, cercando di non cadere né di provocare, con il loro salto, la caduta rovinosa dei compagni. Se tutto andava per il verso giusto, il gioco si vinceva se i ragazzi della squadra di sotto battevano le mani in segno di sconfitta e di riuscita del gioco per quelli di sopra.

A salva fratelli
Un gruppo di cinque, sei o sette ragazzi, talvolta anche più numeroso. Un ragazzo rappresentava la uàrdia ed un altro, libero, aveva il compito di liberare i fratelli. Se il gruppo era composto, ad esempio di otto ragazzi, sei erano i prigionieri e dovevano restare fermi o in ordine sparso o in cerchio, ma equidistanti gli uni dagli altri. Erano considerati prigionieri fintanto che non venivano toccati dal “fratello” libero. In questo modo erano liberati. L’altro ragazzo rappresentava la guardia e aveva il compito di impedire la liberazione dei prigionieri. Correva perciò contro il ragazzo liberatore per impedirgli di liberare i prigionieri ad uno ad uno, cercando di catturare anche il fratello liberatore e gli eventuali liberati. Se raggiungeva il ragazzo libero, mantenendo tutti prigionieri, aveva vinto, mentre perdeva se il ragazzo riusciva a liberare tutti i prigionieri. Il ragazzo che aveva il compito di fare la guardia doveva sbrigarsi perché non poteva permettersi più ragazzi liberati che a loro volta sarebbero divenuti liberatori insieme al fratello liberatore. In pratica il gioco è tutto all’inizio, tra uàrdia e fratello.

A cci nn’acchia (o Titiritoti)
I ragazzi, cinque o sei, tirano a sorte per stabilire chi deve cercare i compagni, ben nascosti e per niente intenzionati a farsi scoprire. Il designato dalla sorte si appoggia al muro e, con gli occhi chiusi, conta sino a 51 ( o anche 41 oppure 31) dando così tempo agli altri ragazzi di nascondersi nelle vicinanze. Prima dell’inizio del gioco i ragazzi stabilivano una meta, una porta o un breve lato del muro. La meta doveva essere toccata dai ragazzi rimasti nascosti, senza essere scoperti dal ragazzo che la difendeva. Quando conquistava la meta, il ragazzo gridava seglia! Il gioco consisteva nell’arrivare alla meta senza essere scoperti. Chi era scoperto diveniva a sua volta cercatore. Se l’ultimo riusciva a raggiungere la meta senza essere scoperto, salvava se stesso e i compagni catturati in precedenza. Il grido tiritoti o titiritoti apriva il gioco e la ricerca dei ragazzi nascosti.

A zzeppuri
Si praticava a squadre di due o anche tre ragazzi. Per giocare c’era bisogno di due semplici attrezzi di legno: un bastone di circa 40 cm e non più grosso di un manico di scopa, da cui spesso si ricavava, e un pezzo di legno appuntito alle estremità e non più lungo di 15 cm e detto in dialetto zzippu (il plurale, zzeppuri, dava nome al gioco ed indicava entrambi i legni usati). Questo zzippu, gettato per terra, doveva essere colpito con il bastone (in dialetto si chiamava mazza) dopo aver fatto leva su di una delle due estremità dello zzippu e averne provocato un piccolo balzo, sufficiente per colpirlo, a mezz’aria, con la mazza. Normalmente si partiva con lo zzippu posto su di un ciglio di marciapiede che diveniva il punto di partenza e la meta per la prima misurazione. La seconda battuta era praticata nel punto di caduta dello zzippu cercando di scagliarlo molto lontano dalla meta, mentre la distanza di caduta dello zzippu era dichiarata in modo presumibile dallo stesso battitore. La distanza tra lo zzippu e la meta si misurava con la mazza usata come unità di misura, per cui il battitore dichiarava, cercando di indovinare, il numero complessivo presumibile di mazze occorrenti per raggiungere lu zzippu. Se la distanza effettivamente misurata risultava uguale o inferiore a quella dichiarata, il battitore vinceva ed era portato a spalla dal successivo ragazzo sino alla meta; se invece era maggiore di quanto dichiarato, il battitore perdeva la mazza, che passava al successivo compagno e così di seguito.

Ammé-salami (A štacchia)
Gioco quasi esclusivamente femminile, giocato preferibilmente tra due compagne e consistente nel saltare all’interno di un tracciato a terra, formato da tre o quattro quadrati a destra e altrettanti a sinistra di una linea centrale mediana. Occorreva stare attenti a non calpestare le linee delimitanti i quadrati contigui e a rispettare, nel salto, i quadrati, secondo modalità diverse volta per volta. La štacchia era quasi sempre una pietra piatta o un pezzo di coccio, ma talvolta poteva essere la buccia superiore di un’arancia tagliata trasversalmente. La štacchia era gettata in successione in ogni quadrato, iniziando dal primo adestra e poi dal primo a sinistra e così via sinop alla fine, evitando che finisse su di una linea u in un quadrato diverso. Il quadrato occupato dalla štacchia poteva essere utilizzato dal giocatore per riposare e al suo interno poteva appoggiare entrambi i piedi, cosa non consentita negli altri quadrati. In questo caso il giocatore poteva raccogliore la štacchia. I salti erano tutti effettuati con un solo piede senza cambiarlo e badando a non saltare su di una riga o in un quadrato anche con una piccola parte del piede. Vinceva chi riusciva a fare tutto il percorso riuscendo ad uscire dalla griglia tracciata per terra semza sbagliare con la štacchia, infilando tutti i quadrati, saltando correttamente e in ordine.

A battimurra
I ragazzi, in numero variabile ma non meno di quattro altrimenti il gioco non era conveniente, dovevano battere le monete di metallo su di un muro e colpire o avvicinarsi il più possibile ad una delle monete poste o scagliate per terra. Si tirava a sorte e il ragazzo prescelto poneva una moneta di metallo ad una certa distanza dal muro, tra 1,5 e 2 metri raramente di più. Le monete erano di metallo dal momento che dovevano essere scagliate sul muro per poi cadere per terra e la loro pezzatura, negli anni Venti e Trenta, variava dai 5 centesimi di lira (un soldo) ai 50 centesimi di lira (mezza lira, anche se era raro vedere battere valori… così alti), passando per i 10 centesimi (due soldi) ed i 20 centesimi (quattro soldi). Più vicino a noi (anni Cinquanta e inizio anni Sessanta) si battevano 5 lire, 10 lire, 20 lire. Raramente si vedevano ragazzi battere 50 lire o addirittura 100 lire. La scelta di giocare con un certo taglio era chiaramente espressa prima del gioco; infatti ilragazzo scelto dalla sorte poneva per terra una moneta di quella pezzatura. Gli altri ragazzi, a turno, battevano con forza, che era attentamente dosata, la loro moneta cercando di farla cadere il più possibile vicina o addirittura sopra un’altra scagliata in precedenza. Più sono le monete e più aumentano sia la posta che le probabilità di avvicinarsi più di chiunque altro ad una qualsiasi delle monete poste per terra. Vinceva tutta la posta quindi chi riusciva a far cadere la sua moneta vicina ad un’altra. Fondamentale era la distanza minima che doveva essere raggiunta tra due monete ed essa era stabilita dai giocatori prima del gioco a parmu, cioè a palmo, e a musura, cioè a misura (il palmo era la distanza che a mano distesa copriva una mano misurata dal pollice al mignolo; la misura era rappresentata da un pezzo di legno, un ramo o nnu salimientu, cioè un tralcio di vite diritto, oppure una canna, comunque leggermente più lunga del palmo della mano e in tal caso si poneva più lontano dal muro la prima moneta).I giocatori dovevano calibrare con perizia la forza che serviva loro per battere la moneta sul muro, adeguando la spinta e ricercando con cura il punto più idoneo della parete per un rimbalzo perfetto e vincente.

A sottapareti
Si praticava con monete metalliche di piccolo taglio (5,10,20,50 centesimi e, più vicino a noi, lire) tra due persone come minimo e, massimo, cinque, sei. I giocatori si ponevano ad una determinata distanza dalla linea fissa che il muro crea nell’incontro tra la verticale e il pavimento, alla base del muro stesso. I giocatori tiravano a sorte ed il primo scagliava la sua moneta con perizia e dosando la forza, cercando di farla giungere il più vicino possibile alla linea di incontro muro-pavimento ed evitando di farla rimbalzare sullo stesso muro, con il rischio, così, di allontanarla, agevolando gli altri giocatori che tiravano successivamente. Chi faceva avvicinare il più possibile la moneta al sottapareti vinceva tutte le altre monete. In caso di dubbio sulla distanza tra due monete, si misurava dalla linea di congiunzione muro-pavimento e si stabiliva chi era la più vicina al muro.

A capu e croci
La moneta metallica ha due facce e tanti erano i contendenti in questo gioco. I giocatori, liberamente, sceglievano una delle due facce, appunto capu o croci. La moneta era lanciata in alto e vinceva, monete o premi di altra natura, chi aveva scelto la faccia scoperta della moneta.

A buttuni (A pinnini)
Si giocava sia con i bottoni che con i pennini che un tempo servivano per scrivere intingendo l’inchiostro dal calamaio. Due o più giocatori, dopo aver scavato una piccola buca (in dialetto puzzettu, la meta del gioco) nel terreno, i giocatori spingevano, partendo da una certa distanza uguale per tutti, i bottoni o i pennini verso la buca. A colpi di dita (di indice o medio facendo leva sul pollice) il giocatore che, a parità di tiri con gli altri, poneva nella buca il suo bottone, vinceva (le mamme erano le meno contente, dal momento che i bottoni erano letteralmente tolti agli indumenti indossati).

A lli quattru pizzuli
I giocatori dovevano essere cinque e per giocare si ponevano ad un quadrivio, cioè un incrocio tra due strade con quattro angoli (pizzuli) di altrettante case. Si tirava a sorte per scegliere il giocatore che doveva stare in mezzo al quadrivio (allora il traffico automobilistico era pressoché inesistente). Gli altri quattro giocatori si ponevano agli angoli, uno per ogni angolo. Questi giocatori dovevano, a turno, scambiarsi di posto, mentre il giocatore senza angolo da difendere, doveva cercare di occuparne uno mentre era vuoto per lo scambio. Il giocatore troppo lento rischiava di perdere il suo angolo e, se ciò avveniva, tentare di riconquistarlo. Un gioco di pura destrezza e velocità.

A cci rria prima
Era la classica corsa tra ragazzi che, in precedenza, avevano fissato una meta ad una certa distanza. Dopo essersi sfidati e provocati, iniziavano a correre. Chi arrivava prima alla meta fissata, vinceva la corsa ed era il primo del gruppo in velocità.

A truddi
Due o più ragazzi, ma soprattutto ragazze, praticavano questo gioco di pura abilità manuale. Si sceglievano cinque piccole pietre, rotondeggianti e si individuava tra di esse lu capu o pietra maestra. Queste pietre, dette truddi, erano lasciate cadere per terra, a caso e ad una certa distanza l’una dall’altra, anche se il giocatore aveva tutto l’interesse a lasciarle cadere, con abilità, accoppiate e comunque non troppo distanziate. Il giocatore doveva, successivamente, lanciare in alto la pietra maestra e con la stessa mano, nell’intervallo del lancio, cercare di raccogliere prima una pietra la volta, cioè nnu truddu, e dopo aver completato senza errori la raccolta, ricominciare con due truddi la volta e così di seguito con tre e con quattro pietre ad ogni lancio, sempre senza sbagliare, altrimenti il gioco passava all’altro giocatore di turno. Dopo aver raccolto le quattro pietre il giocatore poneva sul palmo della mano tutte le pietre, cioè le quattro raccolte così faticosamente e la pietra capu, cioè il quinto truddu. A questo punto il giocatore lanciava debolmente in aria le pietre e, girando la mano, cercava di raccogliere il maggior numero di pietre sul dorso. Le pietre raccolte costituivano punti, necessari per vincere. Infatti all’inizio del gioco i giocatori stabilivano il punteggio da raggiungere e necessario per vincere (generalmente era undici ma poteva anche essere nove o sette).

A mosca cieca
Gioco collettivo, praticato generalmente da non meno di cinque, sei ragazzi, ma riusciva più divertente se erano ancora più numerosi. Si tirava a sorte per scegliere chi doveva, tra i ragazzi, essere bendato. Costui doveva cercare, alla cieca, gli altri ragazzi che dovevano restare attorno al compagno, senza allontanarsi eccessivamente. Se il ragazzo bendato riusciva a catturarne un compagno e, successivamente, ad individuarlo, appellandolo con il suo giusto nome senza vederlo, allora poteva togliere la benda che era poi indossata dal ragazzo catturato ed individuato. Se il ragazzo bendato non riusciva a catturare nessuno, cercava almeno di toccare qualche compagno sperando, poi, di azzeccarne il nome, confidando, quindi, nella sorte.

A rronda
Gioco individuale. Un vecchio cerchione di bicicletta, a cui erano stati tolti i raggi e l’asse, serviva per lo scopo. Con una piccola asta il ragazzo manteneva in piedi il cerchio metallico e, dopo avergli dato la spinta necessaria, gli correva dietro, spingendolo con l’asticella, correggendone la traiettoria e cercando di non farlo cadere per terra, interrompendone così la corsa.

A curlu
Su una trottola di legno, dalla forma conica e con la punta di ferro, si avvolgeva strettamente un pezzo di spago che, tirato con forza ed abilità, faceva girare vorticosamente lu curlu lanciato per terra. La trottola girava con maggiore o minore velocità sia per la forza impressa ma anche per la superficie con un cui la punta di ferro entrava in contatto. Esistevano curli di ogni dimensione e peso ma quello di uso comune era grande quanto un pugno.

A spacca – chianchi (A carassa)
Un gruppo di due, tre ragazzi praticava questo gioco con monete metalliche (del resto nessun ragazzo, e nemmeno molti adulti, potevano permettersi banconote…). I ragazzi tiravano a sorte per stabilire chi doveva essere il primo, cioè chi doveva iniziare il gioco. Il prescelto, posto su di un pavimento di mattoni o di chianche, gettava in alto la sua moneta, cercando di farla cadere nei pressi o proprio sulla giuntura dei mattoni o sulla carassa delle chianche. Gli altri giocatori facevano lo stesso. Chi aveva fatto cadere la sua moneta il più vicino possibile alla carassa o su di essa, vinceva e prendeva le altre monete.

A monopattunu (A motopattini)
Era un giocattolo costruito con pezzi di fortuna, i più fortunati se lo facevano costruire appositamente da qualche falegname. Lo strumento consisteva in un’asta di circa un metro e mezzo; ad una delle due estremità era applicata una ruota di legno del diametro di circa 15-20 centimetri; all’altra era fissata una stecca di legno orizzontale a mo’ di manubrio. Il ragazzo lo appoggiava alla spalla e lo teneva con il manubrio, spingendolo e guidandolo, di corsa, in ogni direzione. Successivamente, a partire dagli anni Sessanta, il motopattini si è raffinato: due assi di legno di circa un metro e venti, tenute insieme da due occhielli per asse e da un’asta in ferro infilata negli occhielli in modo da consentire la sterzata (due occhielli erano avvitati su di un parallelepipedo di legno, fortemente inchiodato su una delle assi posta orizzontalmente, mentre l’altra tavola era posta verticalmente) funzionavano come una moto, con due vere ruote create da cuscinetti a sfera, uno davanti, incastrato con una trave di legno nell’asse verticale, e l’altro (ma potevano anche essere due nei modelli più sofisticati) posto sul lato opposto dell’asse orizzontale, sul punto dove il ragazzo poneva il piede destro, mentre il sinistro serviva per spingere e correre. La parte superiore della tavola verticale accoglieva il manubrio di legno che poteva essere posto verticalmente o obliquamente, quasi fosse un motopattini sportivo. Fittucci ti Santu Cosumu, scupitù e altre sciccherie completavano la carrozzeria. Il motopattini era il sogno di tutti i ragazzi dei nuovi quartieri di periferia che cominciavano a sorgere a Mesagne, figli di braccianti, manovali, immigrati, artigiani. Era povera gente che non poteva permettersi una bicicletta per il figlio e il motopattini sopperiva con dignità. Lungo le poche strade asfaltate (le strade asfaltate si prestavano meglio delle strade di chianche, sconnesse e pericolose) gruppi di ragazzi sfrecciavano sui loro motopattini costruiti con tavole di ogni genere e cuscinetti a sfera usati.

A ttuppa fierru
Il gioco consisteva nel trovare e toccare un oggetto metallico. Chi lo faceva vinceva. Si poteva giocare in due o anche più ragazzi. Può sembrare un gioco banale, ma non lo era affatto dal momento che non era facile trovare un tempo oggetti metallici a portata di mano e per strada. Chi aveva la fortuna di vedere del ferro, doveva, di conseguenza, confidare anche nella velocità per non essere gabbato dal compagno di gioco.

A lla sàlonga
I ragazzi, più erano e molto meglio riusciva il gioco, si prendevano per mano o appoggiavano ambedue le mani sulla spalla del compagno che precedeva, formando o una fila trasversale alla strada (quando si prendevano per mano) o un treno (quando si appoggiavano sulle spalle del compagno). Il ragazzo che precedeva era il capo e dava la direzione al treno. Le strade erano sicure, un po’ meno i malcapitati pedoni o tutti coloro che incrociavano il treno o la fila, dal momento che era obbligatorio non spostarsi per nessuna ragione.

A llu šcaffu
Gioco collettivo molto comune e non del tutto scomparso. La sorte destinava uno dei giocatori, il quale, con le spalle rivolte agli altri giocatori, doveva porre una mano sotto l’ascella, avendo cura di mostrarne il palmo, mentre con l’altra si copriva gli occhi. A questo punto uno dei giocatori posti alle spalle del prescelto dalla sorte, dava un sonoro schiaffo (da qui il nome) sul palmo della mano, esposta appunto per questo scopo. Il malcapitato doveva girarsi e cercare di indovinare il giocatore che aveva dato lo schiaffo. Se ci riusciva, se cioè indovinava l’autore dello schiaffo, lasciava il suo posto al giocatore che si era lasciato scoprire. Ricominciava, così, il gioco con un nuovo giocatore a subire gli schiaffi. Se però non indovinava, restava sotto a subire gli schiaffi dei compagni, dati sempre con grande gusto e partecipazione.

A llu tuzzu a llu tuzzu
I giocatori, numerosi, si disponevano in cerchio dandosi la mano. Un giocatore, a sorte, restava fuori dal cerchio e vi girava attorno di corsa. All’occorrenza e di sua volontà toccava un compagno, il quale lasciava il suo posto e correva con gran lena in direzione opposta al precedente giocatore, per cercare di ritornare al suo posto, nel frattempo lasciato vacante. Se faceva in tempo, rioccupava il posto e il compagno continuava a girare attorno al cerchio, toccando altri e sperando nelle gambe e nella fortuna di trovare un compagno meno veloce. Se viceversa il posto gli era soffiato dal giocatore più veloce di lui, ricominciava il giro al posto dell’altro e così via, ad occupare o tentare di occupare il posto di un compagno meno svelto.

A lla matonna ti li quaranta
Gioco collettivo prevalentemente di velocità. Un ragazzo del gruppo era designato dalla sorte e doveva recitare la seguente filastrocca: Lla matonna ti li quaranta fišca, sona e canta; canta la furtuna, azzicchini una.
Nel frattempo i compagni scappavano via per cercare di sfuggire alla caccia che si apriva subito dopo la filastrocca. Chi era designato dalla sorte doveva, quindi, correre per cercare di afferrare uno dei compagni. Chi si faceva raggiungere doveva a sua volta recitare la filastrocca e ricominciava, così, il gioco.

A lla mamma ti li fiuri
In cerchio e seduti, i giocatori dovevano scegliere il nome di un fiore con il quale essere designati. Uno dei giocatori, appellato come “mamma ti li fiuri”, recitava: «Iu ca sontu la mamma ti li fiuri, vogghiu nnu fiuru». E i giocatori, in coro, rispondevano: «Ccè fiuru vuei?». E la mamma ti li fiuri pronunziava un nome di fiore: Chi tra i giocatori aveva scelto proprio quel nome di fiore, doveva prontamente rispondere che quel fiore non c’era e che la mamma ti li fiuri doveva cercarsene un altro, di cui faceva nome. L’altro giocatore menzionato, se esisteva, rispondeva a sua volta allo stesso modo. Chi si distraeva o non faceva in tempo a rispondere o menzionava il nome di un fiore inesistente, cioè non scelto da nessuno dei giocatori, pagava un pegno, lasciando spesso qualche oggetto a garanzia del pagamento, e il gioco ricominciava. Alla fine si sceglievano le penitenze da pagare e il giocatore perdente poteva riprendersi l’oggetto, ma solo dopo aver pagato il pegno.

A lla naca
Gioco collettivo principalmente femminile e particolare perché si poteva praticare solo con due giocatori per volta. Un giocatore dotato di un filo di spago lungo 50-60 centimetri, legato ai due estremi, operando con abilità con entrambe le mani, riusciva ad intrecciare il filo in modo da creare le condizioni perché l’altro giocatore potesse intervenire. Costui con l’indice e il pollice prendeva in custodia lo spago, nel senso che il primo giocatore trasferiva lo spago intrecciato nelle mani del secondo giocatore, riuscendo a creare una sorta di naca, una culla a causa del dondolio e della forma assunta dallo spago per via dei movimenti che il giocatore riusciva ad imprimere. Il gioco era tutto qui e l’abilità e la riuscita erano nel trasferire lo spago ad un altro compagno.

A lla corda
Del tutto uguale al tiro alla fune, ma poco praticato perché non era facile per i ragazzi procurarsi una corda abbastanza lunga e robusta. Lo spazio c’era, i ragazzi pure ma era raro lo strumento principale del gioco, cioè la fune. Il gioco era semplice: due gruppi contrapposti di ragazzi si fronteggiavano per strada in una gara di pura forza. Dopo aver tracciato tre segni paralleli per terra e perpendicolari alla fune (tre solchi se era ianova e tre linee con pietra di tufo se era asfalto), i ragazzi afferravano la corda alla quale era stato legato uno straccio a metà della sua lunghezza. Questo straccio doveva combaciare con la linea mediana tracciata per terra. I ragazzi, in numero pari per i due gruppi, iniziavano a tirare ad un comando prestabilito. Se lo straccio (quasi sempre il fazzoletto o la maglietta di uno dei ragazzi) oltrepassava una delle due linee, il gruppo opposto ad essa perdeva.

A cci và nterra
Era una vera prova di forza, una sorta di lotta greco-romana, tendente a stabilire le gerarchie nel gruppo. Lo scopo era di gettare per terra l’avversario e guadagnare, così, rispetto e reputazione di duro tra i compagni del gruppo e nel quartiere. Oltre che tra singoli, talvolta, si lottava tra gruppi, ad eliminazione, sino all’individuazione del più forte.

Pizzaca e nò ritiri
Nelle belle serate estive, quando ci ritrovava tra amici e vicini di casa o, in campagna, ci si riuniva alla luce della luna o di qualche lampa vicino a qualche pagghiara dove si era soliti nuttari. Allora si praticava questo gioco collettivo (e molti altri ancora), magari dopo aver finito di raccontare cunti. Il gioco era semplice, come semplice era la gente a quei tempi. Seduti in semicerchio, in genere per terra, si prometteva di non ridere, qualunque cosa fosse accaduta o parola fosse stata detta. In caso contrario si era tenuti al pagamento di un pegno e, quindi, alla successiva penitenza. Un membro del gruppo, che senza farsi notare da alcuno si era sporcato in precedenza alcune dita di nerofumo, pizzicava con queste dita il viso, la fronte o il naso di un compagno, all’oscuro del segno tracciato su di lei. Diveniva, così, lo zimbello degli altri e non ne capiva la ragione. Gli altri non potevano, però, ridere, pena il pagamento del pegno. Non era certo facile trattenere il riso. Il gioco era tutto qui.